Neon Genesis Evangelion, Etica delle relazioni e struttura del mito a cura di Aldo Pisano. Etica e struttura delle relazioni in Neon Genesis Evangelion | Parte 8
Il sesto e ultimo livello è quello della relazione che l’io intrattiene con se stesso, mediante la scansione delle varie entità differenziate presenti nella coscienza stessa. Un io che, come ormai è noto, ha subito una pesantissima Spaltung, una rottura, una lesione dopo la già citata terza ferita narcisistica attribuita da Freud alla psicoanalisi.
Il lavoro introspettivo, sia esso non specificatamente psicoanalitico, ha radici antiche, perché corrisponde alla ricerca di se stessi, quindi a un modo per giungere all’autocoscienza. Che poi questa consapevolezza sia propriamente quella di non avere piena coscienza di se stessi – laddove sacche oscure si annidano nella psiche – è un altro discorso o forse è il discorso(?).
In Evangelion, tutto il procedere della serie prende le mosse da questi tumultuosi conflitti esterni con quella “alterità assoluta” che sono gli angeli e che si trovano al primo livello, quello più esterno. Eppure, all’interno del VI livello, tutto l’insieme degli ordini di relazione pare ri-convergere nell’incontro dell’io con se stesso, in un processo introspettivo che prende piede nella serie mano a mano, fino alla Kehre definitiva in cui ogni episodio diviene sempre più introspettivo. La svolta fondamentale si avrà proprio nella diciannovesima puntata intitolata Introjection [it. introiezione] e che in italiano trova una traduzione più fedele al titolo giapponese: la lotta dell’uomo. Ora, sia l’introiezione, sia la lotta dell’uomo pare che siano inquietantemente accomunati. Questo perché, quell’alterità assoluta (sconosciuta) ad un certo punto pare riaffiorare nella psiche individuale, quindi essa si trova minacciosamente all’interno del soggetto. Così, nel soggetto si ripropone anche il II livello, quello di ciò che è conosciuto (intesa come la componente conscia) e ciò che sconosciuto (intesa come la componente inconscia). Chiaramente, l’idea del conflitto intrapsichico offre già in parte l’idea di cosa possa essere la “lotta dell’uomo”, mostra quel processo di continua ricerca che ha socraticamente l’obiettivo della conoscenza di sé. Ma quest’ultima implica una lotta, uno scontro con ciò che si crede di essere e con ciò che si è veramente, considerando e prendendo atto di tutti quei meccanismi che si pensa di controllare, ma che sfuggono alla coscienza. Nei processi d’introspezione, di autoanalisi consapevole trova allora la strada un percorso di autoconsapevolezza, di quella che si definirebbe in senso socratico la “cura della psykè” che è un topos fondamentale della filosofia. In questa operazione di scioglimento, di presa d’atto e accettazione dei nodi della psiche, dei conflitti, delle debolezze, delle paure, dell’Ombra[1] prende sempre più forma un io che possa relazionarsi in maniera sana con l’alterità esterna; ma prima è necessario relazionarsi con l’alterità interna, fingendo di essere ciò che non si è, ma diventando costitutivamente ciò che si è. È un’operazione complessa, difficile, non semplice e alla quale si preferisce sfuggire nel mondo del divertissement, eppure è l’atto filosofico per eccellenza, un atto etico che determina un miglioramento della relazione fra l’io e ogni forma di alterità esistente all’esterno e da essa dipendente. L’io ha bisogno dell’altro, quanto ha bisogno di se stesso. E se a un certo punto l’altro esterno non è più sufficiente, poiché costruisce un’idea superficiale del soggetto (Persona), dall’altra si mette in moto quel processo introspettivo che mira alla conquista dell’individualità. L’indicazione socratica che stimola la conoscenza di sé, diventa qui emblematica. A tal proposito scrive Piergiorgio Donatelli:
Per Socrate e per Platone, e in generale per gli autori antichi – con importanti eccezioni tra cui spicca quella di Aristotele -, delineare e difendere una sfera come l’etica significa delineare un tipo di vita, una modalità, una maniera di vivere filosofica. Questo modo di vivere è collegato a una certa relazione con se stessi, a doveri verso gli altri, la città e la divinità, è caratterizzato da precise virtù, è considerato bello e nobile, ma va visto soprattutto come un modo di vivere. L’etica fa la sua entrata nella scena del pensiero con Socrate in questa maniera: come un modo di vivere (bios), e come un modo di vivere filosofico. […] La caratteristica principale del modo di vivere filosofico illustrato da Socrate è che in esso ci prendiamo cura di noi stessi. Prendersi cura di sé significa prendersi cura della propria anima. In Socrate l’anima indica il modo di vivere[2].
Come si diceva, un tale percorso costituisce il leitmotiv dell’intera riflessione socratica, per come presentata da Platone. Nella Repubblica c’è un riferimento simbolico al percorso socratico che va dalla polis al Pireo, dal Pireo alla polis:
Socrate è disceso al Pireo per partecipare a una festa religiosa e sta risalendo verso Atene; è costretto, dall’insistenza degli amici, a fermarsi per la notte. La discussione si svolge quindi all’interno di una casa del Pireo, il porto di Atene, un luogo che per sua natura è contraddistinto dagli scambi, dai traffici, da una vita notturna vivace e chiassosa, un luogo che può essere visto anche come fonte di pericoli e insidie. Gli interpreti leggono la discesa (katabasis) come un momento necessario per rendere possibile la risalita (anabasis): per poter salire verso la città è necessario prima sottoporsi a una sorta di percorso di purificazione, di askesis. Di questo duplice movimento si trova traccia anche in altri luoghi cruciali della narrazione platonica. Nel settimo libro, all’interno del mito della caverna, si descrive lo sforzo compiuto dal filosofo per liberarsi dalle catene che lo tenevano legato all’interno dell’antro; egli può finalmente uscir fuori risalendo verso la luce. Alla discesa nella caverna fa quindi seguito la risalita, e poi ancora la discesa: il filosofo dopo aver attinto alle idee e al Bene è chiamato a ridiscendere nella caverna con il compito di liberare gli altri prigionieri, e correndo il rischio che costoro non lo comprendano, lo deridano o addirittura lo uccidano, come avverrà per Socrate. […] Per risalire verso l’idea della giustizia bisogna, dunque, prima immergersi nella pluralità delle doxai. È un passaggio ineludibile, ed è richiesto dal metodo dialettico[3].
Questo movimento di «“caduta” e di “trovarsi di fronte a se stessi che ci è familiare (per esempio nel fenomeno della cattiva coscienza)»[4], di fatto richiama l’attenzione a un processo di costruzione dell’identità e quindi dell’identità etica. Tale processo è perennemente in construens, l’identità non trova mai una forma definita, ma la funzione dell’io è propriamente quella di rendersi stabile nella continuità, assumendo la prospettiva di un “Io ideale”.
Questo significa che l’altro non è più necessario? Assolutamente no, proprio perché l’alterità parte da una relazione interna al soggetto. Così la costruzione dell’io man mano procede per prove ed errori mediante un confronto misurato con chi è all’esterno del soggetto. Ritornando ad Evangelion, Shinji è Shinji perché non è altro: non-è il padre, non-è Rei, non-è Misato. In questo modo, egli inizia lentamente a rendersi conto che la struttura dell’identità, passa dalla corrispondenza e dalla non corrispondenza con l’altro.
Questa evoluzione della coscienza di sé prende le mosse anche da quell’atto fisiologico che è la percezione del sé come corporeità, ma anche del sé come altro[5].
Continua…
[1] Cfr. Jung, C. G. (1928) Die Beziehungen … op. cit.
[2] P. Donatelli, (2015) Etica. I classici, le teorie, le linee evolutive, Einaudi, Torino, pp. 3-4.
[3] Ivi, p. 26.
[4] G., Anders, (1956) Die Antiquiertheit … op. cit., p. 92.
[5] Cfr. Ricoeur P., (1990), Soi-même comme un autre, trad. it. Sé come un altro, a cura di D.,Iannotta Jaca Book, Milano, 1993.