Neon Genesis Evangelion, Etica delle relazioni e struttura del mito a cura di Aldo Pisano. Tra mito[1] e fiaba | Parte 1
Oltre all’etica delle relazioni, in Evangelion è riscontrabile un meccanismo molto particolare: si ha esperienza di un eroe tutto umano – intessuto nella rete delle sue relazioni e dei conflitti che lo attanagliano – ma allo stesso tempo di un eroe super-umano, che mostra la sua forza solo all’interno di quel derivato della divinità che è l’Eva.
Ora, stando al modo in cui si concepisce la struttura e il valore identificativo del mito, si è di fronte a una situazione particolare. Infatti, facendo riferimento a Platone, il mito riportato nella letteratura ha un valore formativo dato dal fatto che esso costruisce un modello di virtù esemplare, tramite la raffigurazione degli dei virtuosi. Nonostante Platone conduca notoriamente un’aspra critica all’arte, allo stesso tempo valorizza quella letteratura che mostra un modello della divinità da seguire, da imitare, chiaramente senza poterne raggiungere a pieno lo status, che di fatto corrisponde al Sé ideale[2].
Dunque, vi sono per Platone forme di arte non completamente “falsate” che permettono di restituire il vero, anche se in maniera “velata”.
In fondo, questo è anche ciò che contraddistingue l’origine del pensiero filosofico: «Il passaggio dal mito al logos si configurava pertanto come passaggio dalla non- verità alla verità»[3], e nello specifico il mito «è la narrazione di un accadimento importante nell’ordine dell’esistere, sia umano che cosmico, la quale si propone come per sé plausibile e vera. Per sé, s’è detto: ossia senza necessità alcuna di esibire le ragioni del suo essere tale, vale a dire di giustificare o “fondare” quel che dice»[4].
Ora, nella visione platonica, ciò che la letteratura “mima” o rappresenta non è altro che un mondo di modelli, di esempi, che sono imbevuti di religiosità. Di fatti, la ricorrenza agli dei olimpici, alla loro presenza fra gli uomini – e tutta la visione “volgare” di divinità che si danno a capricci umani – è quella visione che Platone rigetta. La letteratura propone modelli educativi, esempi che plasmano il carattere e possono farlo nel momento in cui ciò che essa propone siano modelli di virtù. Proprio qui sta la differenza fra falsità e verità letteraria. Gli dei sono exempla, quindi non sono avvezzi alle faccende umane, e laddove la letteratura o il mito propongono questa visione delle divinità greche, allora si può conferire ad essa un valore educativo, in quanto è aderente al vero, a quella coincidenza fra divinità e virtù. Solo così, gli dei possono assumere un valore di ideale-regolativo per l’agire umano.
Scrive Marcello Zanatta:
una certa storiografia dai riconoscibili tratti marcatamente idealistici ha visto nel mito un’assenza di verità, una semplice narrazione dai contenuti fantastici e dai toni favolistici che poteva, sì, tratteggiare comportamenti paradigmatici, atti a fornire a un’umanità ancora ignara del pensiero logico, precetti etici e modelli pedagogici; ma priva di valore obiettivo e di riferimenti «reali» e che per questo dovette essere presto soppiantata dall’avvento della “ragione” e del “pensiero”. Gli dei, ma soprattutto gli eroi d’Omero esprimevano – miticamente – siffatti modelli: certi tipi di umani: lo sdegnoso (Achille), il saggio (Nestore), l’astuto (Odisseo), la moglie fedele (Penelope, Andromaca), quella infida e scatenatrice di mortali contese (Elena), il buon re (Priamo, forse anche Agamennone), il traditore dell’ospite (Paride), ecc. Ma si tratta di modelli disegnati in una materia arazionale e adatti a colpire con le loro forme icastiche, onde essere più facilmente ritenuti, un’umanità, per coì dire, ancora bambina[5].
Da notare che l’importanza di fornire dei modelli di virtù, siano essi quelli da seguire o quelli da non seguire, trova una sua esplicazione sia nella tradizione orale, sia poi nella tradizione scritta. Partendo dall’epopea di Gilgameš si può rilevare l’importanza che l’intreccio fra identità, tradizione e mito propone.
Esso è frutto di un processo che viene tramandato di generazione in generazione, custodendo in sé l’insieme dei valori culturali e morali di un determinato sistema di credenze, di una specifica geo-cultura.
Dunque, l’atto di trasmissione (mettendo per iscritto o tramandando oralmente) è già immediatamente un atto etico, che presiede al mantenimento di una continuità valoriale nella memoria collettiva, secondo una continuità circolare che passa di padre in figlio.
Da considerare, inoltre, il valore didascalico che assume la fiaba nella sua funzione didascalica, più o meno esplicita, tracciando il percorso dell’eroe fiabesco.
Scrive Bruno Bettelheim, ne Il mondo incantato:
È caratteristico delle fiabe esprimere un dilemma esistenziale in modo chiaro e conscio. Questo permette al bambino di afferrare il problema nella sua forma più essenziale, mentre una trama più complessa gli renderebbe le cose confuse. La fiaba semplifica tutte le situazioni. I suoi personaggi sono nettamente tratteggiati, e i particolari, a meno che non siano molto importanti, sono eliminati. Tutti i personaggi sono tipici anziché unici. Contrariamente a quanto avviene in molte moderne storie per l’infanzia, nelle fiabe il male è onnipresente come la virtù. Praticamente in ogni fiaba il bene e il male s’incarnano in certi personaggi e nelle loro azioni, così come il bene e il male sono onnipresenti nella vita e le inclinazioni verso l’uno o verso l’altro sono presenti in ogni uomo. È questo dualismo che pone il problema morale, e richiede la lotta perché possa essere risolto. […] I personaggi delle fiabe non sono ambivalenti: non buoni e cattivi allo stesso tempo, come tutti noi siamo nella realtà. Ma dato che la polarizzazione domina la mente del bambino, domina anche le fiabe. Una persona è buona o cattiva, mai entrambe le cose. Un fratello è stupido, l’altro intelligente. Una sorella è virtuosa e industriosa, le altre sono spregevoli e pigre. […] La presentazione delle polarità del carattere permette al bambino di comprendere facilmente la differenza fra le due cose, il che non potrebbe fare con uguale facilità dove i personaggi s’ispirassero maggiormente alla vita, con tutte le complessità che caratterizzano le persone reali. […] Le fiabe amorali non presentano nessuna polarizzazione e nessun raffronto fra buoni e cattivi; questo perché simili fiabe hanno uno scopo totalmente diverso. Queste storie o questi personaggi, come Il gatto con gli stivali, dove l’eroe assicura il successo mediante la frode, come la fiaba di Jack, che ruba il tesoro del gigante, costruiscono il carattere non promuovendo scelte fra il bene e il male, ma dando al bambino la speranza che anche i più umili possono riuscire nella vita[6].
Poco più avanti, lo stesso Bettelheim cita Platone:
Platone – che probabilmente comprese che cosa forma la mente dell’uomo meglio di alcuni dei nostri contemporanei i quali vogliono che i loro figli piccoli siano messi a contatto soltanto con persone “reali” e con eventi di tutti i giorni – sapeva quale fosse il valore delle esperienze intellettuali per il conseguimento della vera umanità. Egli suggerì che i futuri cittadini della sua repubblica ideale iniziassero la loro educazione letteraria dall’apprendimento dei miti, piuttosto che da meri fatti o dai cosiddetti insegnamenti razionali. Perfino Aristotele, maestro della pura ragione, disse: “L’amico della saggezza è anche un amico del mito”. […] È generalmente riconosciuto che i miti e le fiabe ci parlano nel linguaggio di simboli che rappresentano un contenuto inconscio. […] Gli eroi mitici sono di dimensioni ovviamente sovrumane, e questo è un aspetto che contribuisce a rendere queste storie accettaibili per il bambino. Altrimenti il bambino si sentirebbe schiacciato dalla richiesta implicita di emulare l’eroe della propria vita. I miti sono utili alla formazione non della personalità totale, ma soltanto del Super-io. Il bambino sa che non potrà mai essere all’altezza della virtù dell’eroe, o emulare le sue imprese; da lui ci si può aspettare soltanto che imiti l’eroe in misura molto limitata; così il bambino non viene sconfitto dalla discrepanza fra questo ideale e la propria piccolezza. Tuttavia, i veri eroi della storia, per il fatto di essere persone come ciascuno di noi, inducono il bambino ad avvertire la propria piccolezza quando si confronta con loro. Cercare di farsi guidare e ispirare da un ideale che nessun essere umano può pienamente raggiungere non costringe per lo meno a sentirsi sconfitti, ma le lotte per emulare le imprese di grandi personaggi della realtà sembra disperata al bambino e ingenera in lui sentimenti d’inferiorità, perché egli sa di non poterlo fare e poi perché teme che altri invece possano farlo. I miti proiettano una personalità ideale che agisce sulla base delle richieste del Super-io, mentre, le fiabe illustrano un’integrazione dell’io che consente un’adeguata soddisfazione dei desideri dell’Es. La differenza spiega il contrasto fra il radicato pessimismo dei miti e il sostanziale ottimismo delle fiabe[7]. Questo, permette di focalizzare l’attenzione sulla relazione che si stabilisce fra il mito e la psicoanalisi, ma anche ad un altro importante motto socratico che, insieme al “conosci te stesso”, si trova scritto sul tempo di Delo: “nulla di troppo”.
Continua…
[1] Per una succinta ma attenta analisi del “mito” e della “mitologia”, si rinvia alle relative voci in: A.V., (2000) Le garzantine. Antichità classica, Le Garzantine, Milano.
[2] La possibilità dell’identità stabile del soggetto risulta essere un processo in costruens, in cui non solo è necessario tener conto del Sé attuale, ma anche dei Sé possibili in relazione alla funzione regolativa assunta da un Sé ideale. Qui si innesta l’idea di temporalità soggettiva intesa nel suo orientamento bidirezionale: ritenzione (memoria retrospettiva) e pro-tenzione (memoria prospettica), tutto ciò secondo una percezione della temporalità in relazione al vissuto e alla sua proiezione in avanti, finalizzata alla costruzione dell’io coerentemente con lo schema del Sé attuale. Sintetizzando, si potrebbe affermare che la costruzione della soggettività che avviene in un tempo attuale (presente) è determinata dalla visione retrospettiva degli eventi condensati nella memoria (passato), per proiettarsi verso la forma ideal-tipica di un’identità compiuta, assoluta e quindi integralmente consapevole di sé (futuro).[Cfr. A.V, (2008) Psicologia della personalità e delle differenze individuali, Il mulino, Bologna 2014 (2a ed.)]
[3] M., Zanatta, (2012) Storia della filosofia antica, BUR, Milano, p. 16.
[4] Ivi, p. 17. Corsivo nel testo.
[5] Ivi, p. 16.
[6] B., Bettelheim, (1975) Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici nelle fiabe, Feltrinelli, Milano 2016 (XXa ed.), pp. 14-16.
[7] Ivi, pp. 38-44.